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Corte d'Appello di Bologna > Giusta Causa
Data: 12/12/2001
Giudice: Castiglione
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 236/01
Parti: Ministero delle Finanze / Giovanni C.
LICENZIAMENTO E PATTEGGIAMENTO DEL DIPENDENTE PER DETENZIONE DI STUPEFACENTI


Un dipendente del Ministero delle Finanze trovato in possesso di 505 grammi di hascish, licenziato a seguito di sentenza di pena patteggiata ai sensi dell'art. 444 c.p.p., chiedeva ed otteneva dal Tribunale del lavoro di Bologna una sentenza dichiarativa di illegittimità del recesso. Contro la sentenza proponeva appello il Ministero, e la Corte d'Appello di Bologna accoglieva il ricorso accertando la legittimità del licenziamento e condannando il lavoratore alla restituzione di tutte le somme erogate in esecuzione della sentenza di 1° grado, sulla base delle seguenti argomentazioni. Una prima censura mossa al Giudice di primo grado è relativa al valore (inesistente) attribuito dallo stesso alla sentenza cd. di patteggiamento (prima dell'intervento legislativo del 1999, che ha equiparato tale sentenza a quella di condanna). Infatti secondo la Corte d'Appello - che si dilunga in ampie citazioni di decisioni della Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 313/1990; n. 455/1991; n. 155/1996) e della Corte di Cassazione a Sezioni Unite penale (Cass. S.U. 27.3.1992; Cass. S.U. 8.5.1996; Cass. S.U. 8.7.1998 n. 2976; Cass. S.U. n. 6223/1997) - la sentenza di patteggiamento non può «ritenersi del tutto estranea ad un accertamento giurisdizionale di responsabilità in ordine ai fatti contestati all'imputato» e, comunque, non è «tale da imporre che di essa non si tenga conto nel giudizio civile, fermo restando il divieto di fare stato nello stesso giudizio». Compito del giudice è quindi quello di procedere ad una valutazione autonoma dei comportamenti delittuosi e sulla concreta idoneità dei fatti penalmente rilevanti ai fini della giusta causa di licenziamento, anche utilizzando, come fonte del proprio convincimento, le prove raccolte nel giudizio penale e la stessa sentenza di patteggiamento, per la sua "non estraneità" al citato accertamento giurisdizionale "sommario" di responsabilità. Un secondo motivo di censura alla sentenza Tribunale viene indicata nella ritenuta illegittimità della sanzione espulsiva in quanto adottata «al di fuori delle ipotesi contrattualmente previste» e per avere quindi il Giudice di primo grado «sia pure per implicito, reputato che le previsioni del contratto collettivo costituiscano un limite al potere disciplinare del datore di lavoro ed al suo esercizio discrezionale» e quindi che «il potere di recesso dello stesso datore di lavoro abbia la sua fonte direttamente nella normativa contrattuale collettiva». Secondo la Corte, invece, i concetti di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, in relazione al venir meno dell'elemento della fiducia, non possono che essere desunti da modelli o clausole generali i quali, nell'impossibilità di identificare, in via astratta e preventiva tutti i possibili comportamenti materiali costituenti l'illecito, sono fatti assurgere a veri e propri valori ai quali la condotta del lavoratore deve uniformarsi. Ciò anche perché «una elencazione tassativa dei singoli divieti o dei singoli obblighi rischierebbe di rendere insindacabili atteggiamenti, non espressamente contemplati, che tuttavia sono considerati riprovevoli dalla coscienza collettiva (v. Cass. 5822/2000; n. 15004/2000 ed altre)… sicché non è escluso che possa essere considerata quale giusta causa, autonomamente accertabile dal giudice civile, una condotta gravemente inadempiente del lavoratore in relazione alla quale è in corso un procedimento penale». La Corte d'Appello infine prende in esame la problematica relativa alla rilevanza o meno di fatti estranei all'esecuzione della prestazione lavorativa, affermando che essi, pur essendo «in genere da considerare irrilevanti … possono tuttavia costituire giusta causa di licenziamento … quando, per le caratteristiche peculiari del rapporto, la prestazione lavorativa richiede un ampio margine di fiducia (Cass. 9354/99; n. 7884/97)». In tale ipotesi i comportamenti del lavoratore, ancorché non inquadrabili nell'ambito dell'inadempimento, sono «tali da indurre effetti riflessi nell'ambiente lavorativo e di gravità tali da far venir meno l'elemento della fiducia (ex multis: Cass. 1519/93; n. 11500/95; n. 2626/98 ed altre)». Con riferimento al caso di specie la Corte ha ritenuto che - in considerazione della posizione ricoperta dal lavoratore nell'ambito dell'amministrazione finanziaria, il suo status di dipendente pubblico, le mansioni affidategli e la relazione diretta con l'utenza - il comportamento tenuto dallo stesso fosse non solo lesivo del decoro e del prestigio della P.A. ed idoneo a creare disagio all'interno della struttura, ma, soprattutto, presentasse tutte le caratteristiche per pregiudicare la fiducia e la credibilità che stanno alla base dello specifico rapporto di impiego, stante anche la rilevante intensità dell'elemento soggettivo posto in essere nella condotta criminosa